Salute e benessere

In attesa dei farmaci per la demenza: l'importanza della diagnosi precoce e della prevenzione

alt_text
11 Dicembre 2023

L’Italia è il Paese più anziano d’Europa, con un’età media dei cittadini di quarantotto anni, e ha il rapporto più alto tra il numero di anziani (di età pari o superiore a sessantacinque anni) e il numero di persone in età lavorativa, pari al 37,5 per cento. Secondo l’Istat, entro il 2070 gli over novanta saranno 2,2 milioni, di cui centoquarantacinque ultracentenari.

L’invecchiamento della popolazione ha un costo in termini sociali e sanitari: l’età è il principale fattore di rischio per sviluppare la demenza. Nel nostro Paese il numero totale di pazienti con decadimento cognitivo patologico è stimato in oltre un milione, di cui circa seicentomila affetti da malattia di Alzheimer. Sono circa tre milioni le persone direttamente o indirettamente coinvolte nella loro assistenza, con conseguenze sul piano economico e organizzativo. Dietro al termine demenza ci sono svariati tipi di patologie molto diverse, che comportano una disabilità legata alla perdita delle funzioni cognitive, come la memoria e l’attenzione.

Alcune forme di questa malattia si manifestano con disturbi comportamentali, che includono disperazioni, disturbi del pensiero e dell’umore, rendendo una persona apatica, disinibita o anche aggressiva. "Il sessanta per cento dei casi di demenza è legato alla malattia di Alzheimer che è una forma relativamente ben compresa nei suoi meccanismi fisiopatologici e per cui ci sono a disposizione dei biomarcatori, grazie ai quali è possibile formulare una diagnosi in fase precoce di malattia," dichiara il dottor Carlo Gabelli, direttore del Centro Regionale per l’Invecchiamento Cerebrale (Cric) dell’Azienda Ospedaliera dell’Università di Padova. "Si ritiene che questa sia la malattia del grande anziano e che sia legata a condizioni patologiche complesse e irrisolvibili. Ma non è così, non esiste solo il caso del grave disabile in carrozzella, la demenza si manifesta biologicamente già dieci o vent’anni prima e colpisce la fascia di popolazione intorno ai cinquanta-sessant’anni", spiega.

Il tipo di attività svolta da una persona può aiutare ad accorgersi prima o dopo di avere deficit cognitivi, e questo è determinante per una diagnosi che "oggi tende ad essere sempre più precoce”, illustra Marco Bozzali, professore associato in Neurologia all’Università di Torino e presidente di SINdem, associazione che ha lo scopo di promuovere lo sviluppo della ricerca scientifica di base e clinica nel campo delle demenze. "La diagnosi andrebbe fatta con i primi disturbi cognitivi, sia per le future terapie che potrebbero rallentare significativamente il decorso della malattia, sia per permettere alla persona di sfruttare al meglio il proprio tempo quando è ancora in grado di gestire se stessa e di operare delle scelte importanti per la propria vita", dichiara Bozzali. 

Nei soggetti più giovani, come spiegato da Valentina Bessi, neurologa presso l'Azienda Ospedaliera Universitaria Careggi di Firenze e coordinatrice della ricerca presso il Cridem (Centro di Ricerca e Innovazione per le Demenze), con forme di declino cognitivo soggettivo, una fase prodromica della malattia di Alzheimer, i biomarcatori possono rivelarsi utili identificando questi soggetti nella fase iniziale dei sintomi. Questo fornisce una base per un approccio di modificazione della malattia, poiché tali soggetti mantengono un funzionamento cerebrale relativamente integro e sono altamente motivati a intraprendere trattamenti. "Al momento si può intervenire poco in queste forme precoci. Esistono dei farmaci sintomatici per la demenza che si danno nella fase più avanzata. Aspettiamo l’arrivo dei farmaci che alterano i meccanismi patogenetici della malattia come il Lecanemab che è in attesa del vaglio", dice Bessi. 

Intanto si può e si deve fare prevenzione. Nel 2009 è stato sviluppato il concetto di riserva cognitiva, a fronte della stessa malattia, più questa è alta e più i sintomi emergono tardi. Si tratta di incidere con politiche preventive già sui giovani agendo sullo stile di vita, sul livello di scolarità, sul tipo di attività sociali. "Nel 2020 sono stati identificati dodici fattori di rischio modificabili per la prevenzione primaria. Il quaranta per cento delle demenze è legato a fattori ambientali e le persone ben formate dal punto di vista professionale hanno meno probabilità di incorrere in questa malattia. Anche i traumi cranici possono far sviluppare demenza a dieci o venti anni di distanza. In Inghilterra e Irlanda del Nord per esempio i ragazzi non possono essere esposti a colpi di testa negli allenamenti di calcio. L’ipoacusia, causata da esposizione a rumore se non trattata può causare perdita cognitiva", dice Gabelli.

Fondo per l’Alzheimer e le Demenze 


La Conferenza delle Regioni e delle Province autonome ha stanziato quindici milioni per il Fondo per l’Alzheimer e le Demenze per il 2024-2026, in linea con lo scorso triennio, per "consolidare e ampliare l’offerta di servizi per le persone con disturbo neurocognitivo, garantendo una presa in carico riabilitativa continuativa e di qualità e raggiungendo, quindi, un maggior numero di cittadini che ne possono beneficiare". Come spiega Gabelli, i fondi dello scorso triennio sono stati destinati all’identificazione precoce dei sintomi, alla telemedicina, alla tele riabilitazione dei pazienti, di fatto spostando il paradigma sanitario da una visione prevalentemente socio assistenziale del paziente disabile a una dimensione organizzativa capace di intercettare la malattia tempestivamente e di trattarla efficacemente, questo richiede un’organizzazione territoriale capillare.

"Abbiamo messo a punto un’app per la tele riabilitazione grazie al finanziamento di una fondazione ma sperimentata per un uso clinico grazie ai fondi ministeriali. Abbiamo visto che molti pazienti che seguivamo, riuscivano a usare un tablet che li stimolasse a livello cognitivo per aiutarli a mantenere al meglio le proprie capacità mentali. Si tratta di persone che non ricordano la strada di casa, non guidano più e rischiano un progressivo e dannoso ritiro sociale. Con quest’app cerchiamo di mantenere le abilità residue", illustra Gabelli. A fronte del quadro italiano, però, "quindici milioni sono del tutto insufficienti", dichiara Bozzali, che sottolinea come nel nostro Paese non si investa abbastanza nella ricerca. "Una misura importante sarebbe quella di rafforzare i Centri per i Disturbi Cognitivi e Demenze (CDCD) che hanno gli strumenti per fare una diagnosi il più precoce possibile e differenziare le attività rispetto ai centri dedicati alla gestione delle complicanze più tardive della demenza".

Secondo Bessi, i fondi andrebbero utilizzati investendo sulla figura del neuropsicologo, necessaria per fare l’inquadramento iniziale del paziente e potenziando la ricerca di biomarcatori plasmatici, utili per capire se il soggetto deve proseguire o meno nell’iter diagnostico. "Faccio fatica a far capire a tanti colleghi che stanno in alto quanto sia importante occuparsi di questa malattia ancora un po’ trascurata, per via del suo impatto sulla società. Sarebbe bene creare dei centri di eccellenza perché un domani le cure, che saranno costose, dovranno essere date a chi potrà beneficiarne e ci serviranno persone preparate" conclude Gabelli.


L’Italia è il Paese più anziano d’Europa, con un’età media dei cittadini di quarantotto anni, e ha il rapporto più alto tra il numero di anziani (di età pari o superiore a sessantacinque anni) e il numero di persone in età lavorativa, pari al 37,5 per cento. Secondo l’Istat, entro il 2070 gli over novanta saranno 2,2 milioni, di cui centoquarantacinque ultracentenari.

L’invecchiamento della popolazione ha un costo in termini sociali e sanitari: l’età è il principale fattore di rischio per sviluppare la demenza. Nel nostro Paese il numero totale di pazienti con decadimento cognitivo patologico è stimato in oltre un milione, di cui circa seicentomila affetti da malattia di Alzheimer. Sono circa tre milioni le persone direttamente o indirettamente coinvolte nella loro assistenza, con conseguenze sul piano economico e organizzativo. Dietro al termine demenza ci sono svariati tipi di patologie molto diverse, che comportano una disabilità legata alla perdita delle funzioni cognitive, come la memoria e l’attenzione.

Alcune forme di questa malattia si manifestano con disturbi comportamentali, che includono disperazioni, disturbi del pensiero e dell’umore, rendendo una persona apatica, disinibita o anche aggressiva. "Il sessanta per cento dei casi di demenza è legato alla malattia di Alzheimer che è una forma relativamente ben compresa nei suoi meccanismi fisiopatologici e per cui ci sono a disposizione dei biomarcatori, grazie ai quali è possibile formulare una diagnosi in fase precoce di malattia," dichiara il dottor Carlo Gabelli, direttore del Centro Regionale per l’Invecchiamento Cerebrale (Cric) dell’Azienda Ospedaliera dell’Università di Padova. "Si ritiene che questa sia la malattia del grande anziano e che sia legata a condizioni patologiche complesse e irrisolvibili. Ma non è così, non esiste solo il caso del grave disabile in carrozzella, la demenza si manifesta biologicamente già dieci o vent’anni prima e colpisce la fascia di popolazione intorno ai cinquanta-sessant’anni", spiega.

Il tipo di attività svolta da una persona può aiutare ad accorgersi prima o dopo di avere deficit cognitivi, e questo è determinante per una diagnosi che "oggi tende ad essere sempre più precoce”, illustra Marco Bozzali, professore associato in Neurologia all’Università di Torino e presidente di SINdem, associazione che ha lo scopo di promuovere lo sviluppo della ricerca scientifica di base e clinica nel campo delle demenze. "La diagnosi andrebbe fatta con i primi disturbi cognitivi, sia per le future terapie che potrebbero rallentare significativamente il decorso della malattia, sia per permettere alla persona di sfruttare al meglio il proprio tempo quando è ancora in grado di gestire se stessa e di operare delle scelte importanti per la propria vita", dichiara Bozzali. 

Nei soggetti più giovani, come spiegato da Valentina Bessi, neurologa presso l'Azienda Ospedaliera Universitaria Careggi di Firenze e coordinatrice della ricerca presso il Cridem (Centro di Ricerca e Innovazione per le Demenze), con forme di declino cognitivo soggettivo, una fase prodromica della malattia di Alzheimer, i biomarcatori possono rivelarsi utili identificando questi soggetti nella fase iniziale dei sintomi. Questo fornisce una base per un approccio di modificazione della malattia, poiché tali soggetti mantengono un funzionamento cerebrale relativamente integro e sono altamente motivati a intraprendere trattamenti. "Al momento si può intervenire poco in queste forme precoci. Esistono dei farmaci sintomatici per la demenza che si danno nella fase più avanzata. Aspettiamo l’arrivo dei farmaci che alterano i meccanismi patogenetici della malattia come il Lecanemab che è in attesa del vaglio", dice Bessi. 

Intanto si può e si deve fare prevenzione. Nel 2009 è stato sviluppato il concetto di riserva cognitiva, a fronte della stessa malattia, più questa è alta e più i sintomi emergono tardi. Si tratta di incidere con politiche preventive già sui giovani agendo sullo stile di vita, sul livello di scolarità, sul tipo di attività sociali. "Nel 2020 sono stati identificati dodici fattori di rischio modificabili per la prevenzione primaria. Il quaranta per cento delle demenze è legato a fattori ambientali e le persone ben formate dal punto di vista professionale hanno meno probabilità di incorrere in questa malattia. Anche i traumi cranici possono far sviluppare demenza a dieci o venti anni di distanza. In Inghilterra e Irlanda del Nord per esempio i ragazzi non possono essere esposti a colpi di testa negli allenamenti di calcio. L’ipoacusia, causata da esposizione a rumore se non trattata può causare perdita cognitiva", dice Gabelli.

Fondo per l’Alzheimer e le Demenze 


La Conferenza delle Regioni e delle Province autonome ha stanziato quindici milioni per il Fondo per l’Alzheimer e le Demenze per il 2024-2026, in linea con lo scorso triennio, per "consolidare e ampliare l’offerta di servizi per le persone con disturbo neurocognitivo, garantendo una presa in carico riabilitativa continuativa e di qualità e raggiungendo, quindi, un maggior numero di cittadini che ne possono beneficiare". Come spiega Gabelli, i fondi dello scorso triennio sono stati destinati all’identificazione precoce dei sintomi, alla telemedicina, alla tele riabilitazione dei pazienti, di fatto spostando il paradigma sanitario da una visione prevalentemente socio assistenziale del paziente disabile a una dimensione organizzativa capace di intercettare la malattia tempestivamente e di trattarla efficacemente, questo richiede un’organizzazione territoriale capillare.

"Abbiamo messo a punto un’app per la tele riabilitazione grazie al finanziamento di una fondazione ma sperimentata per un uso clinico grazie ai fondi ministeriali. Abbiamo visto che molti pazienti che seguivamo, riuscivano a usare un tablet che li stimolasse a livello cognitivo per aiutarli a mantenere al meglio le proprie capacità mentali. Si tratta di persone che non ricordano la strada di casa, non guidano più e rischiano un progressivo e dannoso ritiro sociale. Con quest’app cerchiamo di mantenere le abilità residue", illustra Gabelli. A fronte del quadro italiano, però, "quindici milioni sono del tutto insufficienti", dichiara Bozzali, che sottolinea come nel nostro Paese non si investa abbastanza nella ricerca. "Una misura importante sarebbe quella di rafforzare i Centri per i Disturbi Cognitivi e Demenze (CDCD) che hanno gli strumenti per fare una diagnosi il più precoce possibile e differenziare le attività rispetto ai centri dedicati alla gestione delle complicanze più tardive della demenza".

Secondo Bessi, i fondi andrebbero utilizzati investendo sulla figura del neuropsicologo, necessaria per fare l’inquadramento iniziale del paziente e potenziando la ricerca di biomarcatori plasmatici, utili per capire se il soggetto deve proseguire o meno nell’iter diagnostico. "Faccio fatica a far capire a tanti colleghi che stanno in alto quanto sia importante occuparsi di questa malattia ancora un po’ trascurata, per via del suo impatto sulla società. Sarebbe bene creare dei centri di eccellenza perché un domani le cure, che saranno costose, dovranno essere date a chi potrà beneficiarne e ci serviranno persone preparate" conclude Gabelli.

Case di riposo, rsa e case famiglia