






La mutazione di due geni sarebbe tra le possibili cause dell'Alzheimer


Uno dei più grandi studi al mondo per numero di soggetti coinvolti ha rivelato che la mutazione di due geni sarebbe tra le possibili cause dello sviluppo del morbo di Alzheimer. Recentemente pubblicato dalla rivista internazionale Nature Genetics, lo studio ha avuto il contributo dei professori Sandro Sorbi, direttore scientifico dell’IRCCS "Don Gnocchi" di Firenze, e Benedetta Nacmias, docente di neurologia dell’Università di Firenze e responsabile del NGR Lab - Laboratorio congiunto IRCCS “Don Gnocchi” di Firenze e Università degli Studi Firenze, di Neurogenetica in Riabilitazione.
Condotto dall'University Medical Center (UMC) di Amsterdam (Paesi Bassi), dall'Istituto Pasteur di Lille e dall'Università di Rouen Normandie (Francia), lo studio ha coinvolto più di 32mila individui, metà dei quali affetti da malattia di Alzheimer e l'altra metà sani, e ha portato alla scoperta di due nuovi "geni dell'Alzheimer" e alla prova di un terzo.
Lo studio
Parte attiva del genoma, l'esoma è quello che codifica le proteine. Si stima che il 90% delle anomalie e patologie congenite siano determinate dalle sue mutazioni. Il confronto della composizione di tutti gli esoni di un soggetto malato con un riferimento inalterato permette di identificare quale mutazione ha causato la malattia. “L’importanza di questo studio oltre che per il numero di pazienti coinvolti, consiste nel fatto che per la prima volta abbiamo indagato in maniera molto approfondita l’esoma, cioè laddove i geni producono le proteine, e abbiamo identificato due geni dell’Alzheimer, le cui mutazioni sono causative della malattia: non semplici fattori di rischio, ma elementi di causa-effetto”, spiega il professor Sorbi.
Era già noto agli scienziati che le mutazioni genetiche in cinque geni specifici avrebbero aumentato il rischio di contrarre l'Alzheimer. L'attuale studio è andato oltre e ha dimostrato che le alterazioni in due di questi geni porterebbero quasi certamente alla malattia. I ricercatori hanno anche scoperto che il rischio sarebbe aumentato in caso di mutazioni in un sesto gene. In altre parole, un'alterazione genetica in uno qualsiasi di questi geni, secondo i ricercatori, aumenterebbe significativamente il rischio di sviluppare l'Alzheimer.
Attualmente si stima che il 60-80% del rischio di Alzheimer sarebbe spiegato da fattori genetici. In questo modo, attraverso il genoma di una persona sarebbe teoricamente possibile identificare, ancor prima della comparsa di eventuali sintomi, soggetti a maggior rischio di contrarre la malattia, il che consentirebbe l'applicazione di strategie terapeutiche personalizzate.
“Questo studio innanzitutto conferma la nozione che l’Alzheimer è una patologia che dipende da cause molto diverse: ci sono caratteristiche cliniche comuni, ma l’origine può essere diversa da paziente a paziente e quindi questo ci porterà ad indagare le possibili cure nel campo delle terapie genetiche, cioè terapie ‘su misura’ per gruppi diversi di pazienti: da qui arriveranno risposte molto importanti alla cura dell’Alzheimer”, aggiunge Sorbi.
Contributo italiano
Altri IRCCS italiani, oltre al “Don Gnocchi” di Firenze, hanno partecipato alla ricerca e alla redazione dell’articolo: la Fondazione IRCCS Ca' Granda - Ospedale Policlinico di Milano, l’IRCCS Santa Lucia di Roma, il Policlinico Gemelli di Roma e l’Istituto Neurologico Besta di Milano. Il ruolo di queste istituzioni in una ricerca così complessa è stato proprio l'analisi matematica di milioni di dati e uno scrupoloso lavoro di arruolamento di pazienti idonei alla ricerca.
“Dovevamo effettuare un’analisi genetica di soggetti con caratteristiche tali che, pur senza disporre di una diagnosi precisa, li rendessero con buona probabilità affetti da Alzheimer e per questo sono state fatte ricerche molto accurate, con esami diagnostici approfonditi, con un margine di errore che poteva essere molto alto e che avrebbe potuto inficiare i risultati finali. Avevamo però bisogno di avere soggetti con caratteristiche tra loro comuni; in seguito abbiamo fatto dei prelievi di sangue e l’analisi genetica" sottolinea il professor Sorbi.
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