Salute e benessere

Alzheimer: il ruolo dei ricordi nella lotta alla malattia

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3 Gennaio 2022

Secondo importanti studi e ricerche scientifiche, la lotta all’Alzheimer, malattia neurodegenerativa che colpisce principalmente la popolazione anziana, potrebbe essere ad un punto di svolta: in America, infatti, attraverso il contributo di numerosi medici e ricercatori, sembra essere stato individuato un rilevante meccanismo, che mediante il ruolo dei ricordi, potrebbe aiutare alla definizione di una nuova potenziale terapia.
I ricercatori del Southwestern Medical Center dell’Università del Texas, con lo studio del cervello e delle sue funzioni basilari, hanno identificato le caratteristiche di più di cento neuroni sensibili alla memoria, che svolgono un compito fondamentale nel processo con cui i ricordi vengono utilizzati e richiamati nel cervello. I ricordi, che costituiscono essenzialmente la nostra storia e la nostra origine, hanno un ruolo cardinale nella vita di ciascun individuo: mentre formiamo un ricordo, nella nostra mente si attivano specifiche cellule cerebrali capaci di memorizzare persone, eventi ed episodi, che permettono con il tempo di riattivare la memoria facilitando l’associazione tra elementi nuovi e informazioni immagazzinate. La scoperta pubblicata dalla rivista “Neurolmage” potrebbe infatti giovare alle persone che soffrono di lesioni cerebrali traumatiche, ma anche Alzheimer e Schizofrenia: lo studio sembra mostrare che l’innesco che si verifica nel cervello quando vengono recuperati i ricordi avviene in momenti diversi rispetto ad altre attività cerebrali, e pertanto sussisterebbe uno “sfasamento” tra quando un individuo cerca di ricordare qualcosa o qualcuno dal passato, e quando invece sta sperimentando qualcosa di nuovo che sta cercando di trattenere nella memoria. 

Attraverso l’osservazione dell’attività di 103 neuroni sensibili alla memoria nell’ippocampo del cervello e nella corteccia entorinale, sarebbe dunque possibile spiegare come il cervello possa sostanzialmente rivivere un evento, ma anche comprendere se un fatto o un evento memorizzato è qualcosa di nuovo o di precedentemente codificato: questa scoperta farebbe luce su numerose questioni legate al decadimento cognitivo negli anziani, con la loro evidente difficoltà nel ricordare informazioni e di riconoscere i propri cari, e sulla predisposizione nel manifestare disturbi cognitivi e di apprendimento. Lo studio effettuato porterebbe alla progettazione di nuove metodologie terapeutiche, utili anche per la cura della schizofrenia: infatti, una disfunzione al livello dell’ippocampo, che è alla base dell’incapacità di distinguere tra ricordi reali e allucinazioni, fornirebbe una possibile spiegazione sull’insorgere della malattia, individuando nella funzione di questi neuroni la causa dei disturbi che i malati spesso presentano.

Il modello SPEAR, che si basa sullo sfasamento emerso dallo studio, potrebbe rappresentare la base per la definizione di un nuovo modello di funzionamento della memoria rispetto a quello prevalentemente adottato. Il Modello “Separate Phases in Encoding and Retrieval” che gli studiosi hanno utilizzato per condurre diversi esperimenti troverebbe una conferma anche mediante i test effettuati su 27 pazienti con Epilessia, con l’applicazione di elettrodi capaci di mappare non solo le crisi epilettiche ma anche i neuroni coinvolti nei processi di memoria. Il merito più importante di questa ricerca è stato quello di ricavare informazioni utili relative agli esseri umani oltrepassando i semplici dati emersi durante gli esperimenti con animali, incoraggiando direttamente la ricerca sull’uomo e sulle sue capacità. Breadley Lega, Professore associato di Chirurgia Neurologica, Neurologia e Psichiatria dell’Università del Texas, sostiene come l’insieme di queste considerevoli dimostrazioni scientifiche possa condurre all’affermazione di percorsi di cura più efficienti ed efficaci, in grado di osservare in modo più accurato ciò che accade nelle cellule cerebrali colpite dalla malattia: il monitoraggio delle lesioni cerebrali potrebbe garantire un miglioramento del benessere dei pazienti, limitando e riducendo le problematiche conseguenze da esse causate. 
Sebbene i dati emersi in questi studi appaiano particolarmente incoraggianti, la validità del modello proposto non è stata ancora dimostrata in modo definitivo, e bisognerà attendere ulteriori ricerche e conferme, prima che una nuova metodologia terapeutica possa essere applicata all’interno delle RSA, dei Nuclei Alzheimer e delle altre Case di cura per gli anziani colpiti da patologie che compromettono la memoria.


Secondo importanti studi e ricerche scientifiche, la lotta all’Alzheimer, malattia neurodegenerativa che colpisce principalmente la popolazione anziana, potrebbe essere ad un punto di svolta: in America, infatti, attraverso il contributo di numerosi medici e ricercatori, sembra essere stato individuato un rilevante meccanismo, che mediante il ruolo dei ricordi, potrebbe aiutare alla definizione di una nuova potenziale terapia.
I ricercatori del Southwestern Medical Center dell’Università del Texas, con lo studio del cervello e delle sue funzioni basilari, hanno identificato le caratteristiche di più di cento neuroni sensibili alla memoria, che svolgono un compito fondamentale nel processo con cui i ricordi vengono utilizzati e richiamati nel cervello. I ricordi, che costituiscono essenzialmente la nostra storia e la nostra origine, hanno un ruolo cardinale nella vita di ciascun individuo: mentre formiamo un ricordo, nella nostra mente si attivano specifiche cellule cerebrali capaci di memorizzare persone, eventi ed episodi, che permettono con il tempo di riattivare la memoria facilitando l’associazione tra elementi nuovi e informazioni immagazzinate. La scoperta pubblicata dalla rivista “Neurolmage” potrebbe infatti giovare alle persone che soffrono di lesioni cerebrali traumatiche, ma anche Alzheimer e Schizofrenia: lo studio sembra mostrare che l’innesco che si verifica nel cervello quando vengono recuperati i ricordi avviene in momenti diversi rispetto ad altre attività cerebrali, e pertanto sussisterebbe uno “sfasamento” tra quando un individuo cerca di ricordare qualcosa o qualcuno dal passato, e quando invece sta sperimentando qualcosa di nuovo che sta cercando di trattenere nella memoria. 

Attraverso l’osservazione dell’attività di 103 neuroni sensibili alla memoria nell’ippocampo del cervello e nella corteccia entorinale, sarebbe dunque possibile spiegare come il cervello possa sostanzialmente rivivere un evento, ma anche comprendere se un fatto o un evento memorizzato è qualcosa di nuovo o di precedentemente codificato: questa scoperta farebbe luce su numerose questioni legate al decadimento cognitivo negli anziani, con la loro evidente difficoltà nel ricordare informazioni e di riconoscere i propri cari, e sulla predisposizione nel manifestare disturbi cognitivi e di apprendimento. Lo studio effettuato porterebbe alla progettazione di nuove metodologie terapeutiche, utili anche per la cura della schizofrenia: infatti, una disfunzione al livello dell’ippocampo, che è alla base dell’incapacità di distinguere tra ricordi reali e allucinazioni, fornirebbe una possibile spiegazione sull’insorgere della malattia, individuando nella funzione di questi neuroni la causa dei disturbi che i malati spesso presentano.

Il modello SPEAR, che si basa sullo sfasamento emerso dallo studio, potrebbe rappresentare la base per la definizione di un nuovo modello di funzionamento della memoria rispetto a quello prevalentemente adottato. Il Modello “Separate Phases in Encoding and Retrieval” che gli studiosi hanno utilizzato per condurre diversi esperimenti troverebbe una conferma anche mediante i test effettuati su 27 pazienti con Epilessia, con l’applicazione di elettrodi capaci di mappare non solo le crisi epilettiche ma anche i neuroni coinvolti nei processi di memoria. Il merito più importante di questa ricerca è stato quello di ricavare informazioni utili relative agli esseri umani oltrepassando i semplici dati emersi durante gli esperimenti con animali, incoraggiando direttamente la ricerca sull’uomo e sulle sue capacità. Breadley Lega, Professore associato di Chirurgia Neurologica, Neurologia e Psichiatria dell’Università del Texas, sostiene come l’insieme di queste considerevoli dimostrazioni scientifiche possa condurre all’affermazione di percorsi di cura più efficienti ed efficaci, in grado di osservare in modo più accurato ciò che accade nelle cellule cerebrali colpite dalla malattia: il monitoraggio delle lesioni cerebrali potrebbe garantire un miglioramento del benessere dei pazienti, limitando e riducendo le problematiche conseguenze da esse causate. 
Sebbene i dati emersi in questi studi appaiano particolarmente incoraggianti, la validità del modello proposto non è stata ancora dimostrata in modo definitivo, e bisognerà attendere ulteriori ricerche e conferme, prima che una nuova metodologia terapeutica possa essere applicata all’interno delle RSA, dei Nuclei Alzheimer e delle altre Case di cura per gli anziani colpiti da patologie che compromettono la memoria.

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