Salute e benessere

Alzheimer: la correlazione tra l'intestino e lo sviluppo della patologia

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24 Novembre 2020

Per anni si è parlato dell'intestino come del "secondo cervello". Il sospetto che ci fosse una correlazione tra flora intestinale e lo sviluppo dell'Alzheimer è di vecchia data. A darne la conferma è lo studio recentemente pubblicato sulla rivista Journal of Alzheimer’s Disease e firmato da un team di ricercatori dell’Istituto Centro San Giovanni Di Dio Fatebenefratelli di Brescia, dell’Università di Napoli, del Centro Ricerche Sdn di Napoli, in collaborazione con l’Università di Ginevra (UniGe) e gli Ospedali universitari di Ginevra (Hug).

 I ricercatori affermano che le proteine prodotte da alcuni batteri che si trovano nell'intestino e che sono state identificate nel sangue di persone malate, modificano l'interazione tra il sistema immunitario e il sistema nervoso. Come spiega il neurologo Giovanni Frisoni, specialista dell'Università di Ginevra, “abbiamo già dimostrato che la composizione del microbiota intestinale nei pazienti con malattia di Alzheimer è alterata rispetto a quella delle persone che non soffrono di tali disturbi. Inoltre, abbiamo anche scoperto un'associazione tra un fenomeno infiammatorio rilevato nel sangue, alcuni batteri intestinali e la malattia di Alzheimer. Da qui l'ipotesi che abbiamo voluto testare: l’infiammazione nel sangue può essere un mediatore tra il microbiota e il cervello?

 E' bene ricordare che i batteri della flora intestinale possono influenzare il funzionamento del cervello e agire a favore della degenerazione in vari modi: uno di questi è regolando il sistema immunitario e modificando la sua interazione con il sistema nervoso. I ricercatori hanno scoperto proteine chiamate lipopolisaccaride (LPS), o endotossina, presenti nella membrana dei batteri con proprietà pro-infiammatorie nelle placche amiloidi. Allo stesso modo, la flora intestinale produce metaboliti che hanno proprietà neuroprotettive e antinfiammatorie, che influenzano - direttamente o indirettamente - le funzioni cerebrali.

La dottoressa Moira Marizzoni, coautrice degli articoli pubblicati e ricercatrice presso il Centro Fatebenefratelli di Brescia, in Italia, ha spiegato che alcuni batteri nella flora intestinale sono legati alla quantità di placche amiloidi nel cervello. Ciò avviene grazie al sistema sanguigno, che trasporta alcune proteine al cervello.
“In effetti, livelli ematici elevati di lipopolisaccaridi e alcuni acidi grassi a catena corta, acetato e valerato, erano associati entrambi ai grandi depositi di amiloide nel cervello. Al contrario, alti livelli di un altro acido grasso a catena corta, il butirrato, erano associati a una minore patologia amiloide”.

La scoperta, di estrema importanza, apre la strada a nuove forme di prevenzione della patologia neurodegenerativa, che colpisce oltre 600.000 persone soltanto nel nostro paese. Tuttavia, è lo stesso Frisoni ad invitare alla calma: “Un effetto neuroprotettivo - spiega il neurologo - potrebbe essere efficace solo in una fase molto precoce della malattia, in un'ottica di prevenzione piuttosto che di terapia. Purtroppo la diagnosi precoce è ancora una delle principali sfide nella gestione delle malattie neurodegenerative: devono ancora essere sviluppati protocolli per identificare gli individui ad alto rischio, e poterli trattare ben prima della comparsa di sintomi rilevabili”.

Per anni si è parlato dell'intestino come del "secondo cervello". Il sospetto che ci fosse una correlazione tra flora intestinale e lo sviluppo dell'Alzheimer è di vecchia data. A darne la conferma è lo studio recentemente pubblicato sulla rivista Journal of Alzheimer’s Disease e firmato da un team di ricercatori dell’Istituto Centro San Giovanni Di Dio Fatebenefratelli di Brescia, dell’Università di Napoli, del Centro Ricerche Sdn di Napoli, in collaborazione con l’Università di Ginevra (UniGe) e gli Ospedali universitari di Ginevra (Hug).

 I ricercatori affermano che le proteine prodotte da alcuni batteri che si trovano nell'intestino e che sono state identificate nel sangue di persone malate, modificano l'interazione tra il sistema immunitario e il sistema nervoso. Come spiega il neurologo Giovanni Frisoni, specialista dell'Università di Ginevra, “abbiamo già dimostrato che la composizione del microbiota intestinale nei pazienti con malattia di Alzheimer è alterata rispetto a quella delle persone che non soffrono di tali disturbi. Inoltre, abbiamo anche scoperto un'associazione tra un fenomeno infiammatorio rilevato nel sangue, alcuni batteri intestinali e la malattia di Alzheimer. Da qui l'ipotesi che abbiamo voluto testare: l’infiammazione nel sangue può essere un mediatore tra il microbiota e il cervello?

 E' bene ricordare che i batteri della flora intestinale possono influenzare il funzionamento del cervello e agire a favore della degenerazione in vari modi: uno di questi è regolando il sistema immunitario e modificando la sua interazione con il sistema nervoso. I ricercatori hanno scoperto proteine chiamate lipopolisaccaride (LPS), o endotossina, presenti nella membrana dei batteri con proprietà pro-infiammatorie nelle placche amiloidi. Allo stesso modo, la flora intestinale produce metaboliti che hanno proprietà neuroprotettive e antinfiammatorie, che influenzano - direttamente o indirettamente - le funzioni cerebrali.

La dottoressa Moira Marizzoni, coautrice degli articoli pubblicati e ricercatrice presso il Centro Fatebenefratelli di Brescia, in Italia, ha spiegato che alcuni batteri nella flora intestinale sono legati alla quantità di placche amiloidi nel cervello. Ciò avviene grazie al sistema sanguigno, che trasporta alcune proteine al cervello.
“In effetti, livelli ematici elevati di lipopolisaccaridi e alcuni acidi grassi a catena corta, acetato e valerato, erano associati entrambi ai grandi depositi di amiloide nel cervello. Al contrario, alti livelli di un altro acido grasso a catena corta, il butirrato, erano associati a una minore patologia amiloide”.

La scoperta, di estrema importanza, apre la strada a nuove forme di prevenzione della patologia neurodegenerativa, che colpisce oltre 600.000 persone soltanto nel nostro paese. Tuttavia, è lo stesso Frisoni ad invitare alla calma: “Un effetto neuroprotettivo - spiega il neurologo - potrebbe essere efficace solo in una fase molto precoce della malattia, in un'ottica di prevenzione piuttosto che di terapia. Purtroppo la diagnosi precoce è ancora una delle principali sfide nella gestione delle malattie neurodegenerative: devono ancora essere sviluppati protocolli per identificare gli individui ad alto rischio, e poterli trattare ben prima della comparsa di sintomi rilevabili”.